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Le madri sfruttate negli allevamenti intensivi 


Anche quando si tratta di un tema delicato come il rapporto madre-figlio, il linguaggio dice tantissimo di quanto si tenga in considerazione l’essere vivente di cui si sta parlando.

Scorrendo gli articoli di settore zootecnico basta poco per rendersi conto che quella che noi consideriamo una madre, una mamma a tutti gli effetti, non è vista allo stesso modo dall’industria.

Nel caso dei bovini si può trovare la definizione di “vacche nutrici”, ma ancora più spesso le mamme sono definite attraverso l’unico organo che interessa all’industria, l’utero.

Uteri sfruttati per una procreazione in batteria, costante, ininterrotta e dolorosa, uteri svuotati e riempiti con il solo scopo di aumentare e rendere sempre più profittevole la produzione di animali da reddito da mandare al macello.

Uteri che secondo l’industria non hanno cuore, cervello ed emozioni che legano indissolubilmente una madre al proprio cucciolo.

Ma questi animali non sono uteri che fluttuano nel vuoto. Sono madri legate ai loro figli, strappati per il consumo di carne e latte.

Ed è per questo che abbiamo voluto raccontare con le storie di mucche, scrofe e pecore che cosa significa essere madre nell’allevamento intensivo, una condizione terribile che accomuna tutte le specie animali allevate dall’uomo.

Mucche 

L’industria lattiero-casearia ritrae mucche felici e soddisfatte delle loro vite, sottoponendoci ad una costante propaganda in cui ci viene detto che abbiamo bisogno di latte per mantenere i nostri figli sani. In tutto questo però viene omesso il loro sfruttamento.

Per ottenere i prodotti caseari, la mucca è stata selezionata geneticamente per produrre più latte possibile, molto più di quanto il suo corpo sia in grado di sopportare.

Come risultato, vi è un alto rischio di mastiti, una forma molto dolorosa di infezione della mammella; un’altra conseguenza di queste violenze è la zoppia, causata dal volume delle mammelle, che diventano troppo pesanti per le zampe posteriori.

Come tutti i mammiferi, la mucca comincia a produrre latte solo dopo aver partorito. Per assicurare una produzione costante di latte, dunque, la mucca deve essere ingravidata artificialmente ogni anno. Il processo, estremamente violento e traumatico per l’animale, viene compiuto dagli operatori manualmente o con l’uso di lunghi tubi metallici.

Il vitello viene allontanato dalla madre appena nato, in modo che il latte naturalmente destinato a lui possa essere invece messo in commercio per gli esseri umani.

Proprio come noi, la mucca ha un istinto materno molto forte nei confronti del vitello che nutre e protegge, infatti soffre immensamente quando le viene portato via. Questa separazione è molto dolorosa: le madri muggiscono in cerca del proprio vitellino per giorni e giorni.

Una volta separata dal piccolo e privata della sua libertà, viene munta forzatamente più volte al giorno attraverso l’utilizzo di macchinari atti ad aumentare la secrezione del latte fino a 40 litri al giorno, una quantità 10 volte maggiore a quella naturale.

Per massimizzare la produzione, la mucca verrà fecondata nuovamente entro tre mesi dal parto, pur essendo di fatto ancora nella fase di allattamento. Nel periodo in cui produce latte, viene in genere munta per dieci mesi, con solo due mesi di pausa dalla nascita del prossimo vitello.

Questa pressione sul suo corpo va ad incidere sulla sua salute e fertilità che verranno così usurate nell’arco di cinque anni circa. Non potendo più produrre latte a sufficienza, la mucca non viene più considerata “profittevole” dall’industria e verrà inviata al macello per essere sostituita da un animale più giovane.

Scrofe 

Guardare le immagini che raccontano la vita delle scrofe, ovvero il maiale femmina, è un viaggio nella sofferenza.

Usate con il solo scopo della riproduzione, all’interno degli allevamenti vengono rinchiuse – dopo essere stata ingravidate artificialmente – nelle gabbie ‘da gestazione’, luoghi dallo spazio ristretto, dove le scrofe riescono a malapena a muoversi e dove rimarranno fino a quando saranno spostate nelle gabbie ‘da parto’, luoghi all’interno dei quali è di fatto impossibile costruire un nido per i propri piccoli.

Infatti, se lasciate libere, le scrofe costruirebbero un nido confortevole di foglie, rami ed erba per i cuccioli, in un luogo sicuro e appartato. Ovviamente tutto questo non è possibile all’interno degli allevamenti intensivi.

Oltre a questo, il sistema delle gabbie causa notevoli problemi alle scrofe, che costrette in lunghe e interminabili file di gabbie in metallo, sono private di qualunque stimolo naturale, come poter godere dell’aria e del sole, annusare l’erba, muoversi in spazi aperti. Tutto questo provoca molto stress e danni neurologici, che portano gli animali a comportamenti aggressivi e di rabbia, generati dalla frustrazione di queste condizioni innaturali e repressive.

A questo si sommano anche possibili incidenti, perché le madri, a causa dello spazio ristretto in cui sono costrette a passare tutta la loro vita, rischiano di schiacciare i cuccioli, che condividono con loro questo spazio angusto.

Una volta passate le prime tre-quattro settimane, i cuccioli verranno strappati alle madri, che in natura invece svezzerebbero i piccoli non prima dei tre mesi.

Separate dai cuccioli poco dopo il parto, le scrofe soffriranno sia fisicamente che psicologicamente.

Esse infatti sono considerate unicamente un mezzo di produzione e quando non saranno più in grado di dare alla luce un certo numero di maialini, verranno mandate al macello.

Una realtà cruda e terribile, che abbiamo raccolto anche nelle nostre investigazioni, come quella sulla vita dei maiali negli allevamenti intensivi italiani.

Pecore 

Le pecore sono le madri del cucciolo per eccellenza, quello che nell’immaginario collettivo rappresenta l’innocenza e il candore.

Madri degli agnelli, le pecore sono sfruttate dall’industria per molteplici motivi: per il loro utero, che dà vita a quello che viene considerato solo un prodotto, il cucciolo della mamma pecora, per il loro latte – in origine prodotto per il cucciolo ma sfruttato dall’industria lattiero-casearia, e per il loro vello utilizzato nella produzione della lana.

Anche in questo caso, si tratta di una pratica molto dolorosa e innaturale per le pecore, perché nel corso del tempo sono state modificate geneticamente in modo da produrre più vello possibile nel minor tempo possibile, una modificazione – a crescita molto rapida – che crea molti disagi agli animali che vengono inoltre sottoposti in continuazione alla tosatura.

La vita delle pecore è devastata dal trauma della continua perdita dei loro cuccioli, che vengono strappati alle madri in tempi molto veloci.

Solitamente, l’agnello viene allontanato superati i 30 giorni e viene destinato a una fine precoce e violente.

In alcuni casi addirittura sono stati documentati viaggi che trasportavano agnelli con meno di trenta giorni, una pratica dovuta alla tradizione di alcune zone, dove a Pasqua e Natale si è soliti mangiare l’abbacchio, l’agnellino che ha meno di un mese di vita.

I viaggi dei loro cuccioli sono sempre terribili, e li abbiamo documentati seguendo un camion in arrivo dalla Romania.

Sono storie tristi, e difficili da mandare giù.

Ma puoi fare qualcosa anche tu per aiutare le madri sfruttate degli allevamenti intensivi: lascia i prodotti di origine animale fuori dal tuo piatto!


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