IL TUO AIUTO VALE DOPPIO ANCORA PER POCO! DONA ORA

Perché la fame nel mondo è strettamente legata al nostro consumo di carne


Il bambino che vedi nella foto poco più sotto rappresenta uno degli 870 milioni di persone che ogni giorno va a letto con lo stomaco vuoto. Circa un ottavo della popolazione mondiale vive in queste condizioni e, contrariamente a quello che normalmente pensa la gente, esiste un nesso fra la condizione di questo ottavo di popolazione e la produzione di carne.

Vorremmo che teniate in mente questa foto di Kevin Carter intanto che leggete questo articolo, perché si tratta di una delle conseguenze pratiche e quotidiane dovute ad ogni singolo punto affrontato in questo articolo.

Attualmente produciamo cibo per circa 10 miliardi di persone. L’intera popolazione terrestre ammonta a circa 7.5 miliardi ma quasi un miliardo di questi non ha idea di cosa mettere nel proprio piatto: queste cifre così drammaticamente alte ci spiegano perché, oggi, l’accesso al cibo sia uno dei maggiori problemi che affliggono il nostro pianeta.

The volture and the little girl“, una foto con cui il fotografo Kevin Carter vinse il premio Pulitzer.

Cosa c’entra tutto questo con il consumo di carne?

Solitamente ad una domanda così semplice seguirebbe una risposta complessa. Promettiamo che non sarà questo il caso.

Il problema della fame nel mondo è un problema di risorse. Non perché queste manchino (abbiamo evidenziato come attualmente già si produca più del cibo necessario per l’attuale popolazione mondiale), ma a causa della loro pessima distribuzione.

Partiamo da un dato incontestabile: se guardiamo il rapporto fra risorse impiegate e resa in termini di produzione di cibo, l’allevamento non è minimamente paragonabile all’agricoltura. Non esiste nessun tipo di animale che possa produrre la stessa quantità di cibo che potremmo ottenere, impiegando le stesse risorse, con l’agricoltura.

Questo a causa di un meccanismo molto semplice: per produrre cibo da fonti animali, dobbiamo investire enormi quantità di cibo di origine vegetale. Impieghiamo mesi o anni per far crescere gli animali nei nostri allevamenti e per fare questo dobbiamo investire enormi quantità di mangimi. Questi mangimi, ovviamente, devono venire coltivati.

I più scettici staranno già storcendo il naso, pensando a come vegetali e cibi di origine animale abbiano caratteristiche completamente differenti e probabilmente l’argomento più gettonato sarà quello la differente resa degli alimenti in termini proteici. Sfatiamo subito questo mito.

Un acro di terreno (un’area grande poco meno di mezzo ettaro) impiegato per la produzione di cibo animale produce mediamente 9000 grammi di proteine. La stessa area di terreno coltivato a legumi invece produce mediamente 166.000 grammi di proteine, ben diciotto volte quella destinata all’allevamento intensivo.

Il sistema degli allevamenti intensivi utilizza il 30% delle terre emerse e va sottolineato come il 33% dei terreni arabili presenti su questo pianeta sia destinato alla produzione di mangimi per gli allevamenti intensivi. Significa che oltre un terzo di quello che coltiviamo, lo diamo da mangiare agli animali che facciamo nascere ed obblighiamo a vivere e morire all’interno dei nostri allevamenti.

Gli animali impiegano molte più calorie (ricavate dai vegetali) di quante ne producano sotto forma di carne, latte e uova: come “macchine” che convertono calorie vegetali in calorie animali, sono del tutto inefficienti. Il rapporto di conversione da mangimi a cibo per gli umani varia a seconda della specie, ma è in media molto alto, 1:15.

Significa che servono circa 15kg di mangime per produrre un solo kg di carne.

Ricordate la foto con cui abbiamo aperto questo articolo? L’82% dei bambini che soffrono di fame nel mondo vive in paesi i cui terreni agricoli sono destinati alla produzione di quei mangimi con cui vengono nutriti gli animali che vengono mangiati nel mondo occidentale.

Ma gli animali sono una fonte di cibo inefficiente anche dal punto di vista delle risorse idriche.

Attualmente l’accesso all’acqua potabile rappresenta un problema equiparabile nelle dimensioni a quello della fame: sono infatti circa 884 milioni le persone che in questo momento non vi hanno accesso, una percentuale di popolazione maggiore della somma degli abitanti degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e del Canada.

L’acqua c’è, ma anche qui il problema è la sua distribuzione completamente iniqua. Il 92% del consumo di acqua da parte dell’essere umano è imputabile alla produzione di cibo.

Un terzo di quest’acqua viene utilizzata per produrre cibo di origine animale: viene impiegata per irrigare i terreni coltivati per il mangime, nell’elaborazione dei mangimi stessi, come acqua potabile per gli animali ed infine anche per il mantenimento delle strutture degli allevamenti.

Come nel caso precedente dei terreni, anche l’acqua è un bene finito ed in quanto tale, soprattutto in una condizione in cui circa un ottavo della popolazione non ha accesso all’acqua potabile, andrebbe amministrato con coscienza. Cosa che attualmente non succede.

L’impronta idrica è un parametro che quantifica i consumi e le modalità di utilizzo delle risorse idriche. È misurata in volume (litri) di acqua dolce consumata, evaporata o inquinata durante il ciclo di vita di un prodotto e tiene in considerazione anche il luogo dove è avvenuto il prelievo.

Negli anni sono stati effettuati diversi studi sulle differenti impronte idriche di quello che mangiamo, ed anche in questo caso l’industria della carne è al primo posto in termini di utilizzo. Sono necessari infatti circa 15.500 litri d’acqua dolce per produrre un kg di carne di bovino, circa 5000 litri per un kg di formaggio o 4800 litri per un kg di carne di maiale. Queste cifre si scontrano contro i 4055 litri necessari per un kg di legumi, i 970 litri necessari per un kg di frutta ed i 325 litri necessari per un kg di verdura.

Facciamo un esempio più concreto? Per produrre un hamburger impieghiamo l’equivalente di due mesi di docce nel nostro appartamento.

Viviamo un tempo paradossale. Produciamo cibo per circa 10 miliardi di persone, eppure più di un settimo della popolazione mondiale soffre di fame e di sete. Come è possibile tutto questo?

Semplice: se noi vogliamo continuare a mangiare carne, con queste quantità ed a questi ritmi produttivi, serve che qualcun altro nel mondo non lo faccia o che, peggio ancora, serve che qualcun altro nel mondo non abbia accesso alle risorse di cui avrebbe bisogno.

La triste verità è che più carne mangiamo noi, meno possibilità di mangiare avranno le persone meno abbienti del pianeta.

Martín Caparrós ha riassunto bene il concetto:

“Una persona che mangia carne si appropria mediamente di risorse che, suddivise, basterebbero per cinque o dieci persone. Mangiare carne significa stabilire una disuguaglianza molto marcata: io sono quello che si permette di mangiare un cibo cinque, dieci volte più costoso rispetto a quello che mangiate voi.”

In questo scenario, abbiamo due possibilità: voltare il nostro sguardo da un’altra parte e fingere di non sapere nulla di tutto questo, oppure decidere di prendere parte quotidianamente al cambiamento riducendo o meglio ancora eliminando completamente i prodotti di origine animale dalle nostre abitudini alimentari.

Così facendo non combatteremo solo l’iniquità della distribuzione delle risorse alimentari, ma anche le indicibili sofferenze inflitte agli animali negli allevamenti intensivi ed i danni che questo sistema di produzione del cibo provoca al nostro pianeta.

Il futuro non è scritto: è tutto nelle nostre mani e nella nostra capacità di prendere parte in maniera attiva a processi di cambiamento collettivi che vadano a migliorare il domani di tutti. Uomini, animali ed ambiente.


Le più lette